Ci stressiamo
perché mangiamo male o mangiamo male perché ci stressiamo?
Molto spesso in ambulatorio, che un paziente venga
per un problema metabolico conclamato (sovrappeso o obesità, malnutrizione, o
altro specifico del metabolismo di zuccheri o lipidi), o per un problema di
insonnia, o di situazioni border line dell’apparato cardiovascolare
(ipertensione arteriosa, tachicardie sinusali o cardiopalmo), o per situazioni
di disagio o problemi importanti dell’apparato digerente (gastriti, coliti o
“semplici” quadri di dispepsia intesa come gonfiore addominale, senso perenne
di malessere addominale e conseguentemente generalizzato), il punto di
squilibrio iniziale è “la modalità del vivere quotidiano”.
Capitano di frequente infatti due situazioni con
relative affermazioni:
-“sono
stressato”, e so di abbuffarmi per una necessità di sfogo che diventa una
coccola (atteggiamento tipico più del sesso femminile);
-“non ho tempo di mangiare o mangio quando e dove mi
capita” perché devo lavorare (tipico più del sesso maschile).
Entrambe le situazioni possono comportare uno stato di disequilibrio metabolico (specifico
legato ad un abuso di dolci o di altro tipo di cibo-conforto, o di sovrappeso, o
altre fonti di malnutrizione), o dell’apparato
digerente (anche la “sola” persistenza di alterazioni dell’alvo con quadri
di colite, o di persistente e disagevole fonti di gonfiori intestinali), ma l’effetto “stressante” sul nostro sistema
nervoso emozionale (limbico) e conseguentemente sulla cascata ormonale sarà potenzialmente diverso, e più pericoloso nel secondo esempio.
Sappiamo che alcuni cibi hanno un effetto diretto
sulla “centralina dello stress”, ossia l’ipofisi, che condiziona, tra le altre
cose, proprio il comportamento alimentare (ossia la scelta del pasto successivo a
ciò che abbiamo appena o ripetutamente mangiato): per il loro effetto
di rialzo glicemico rapido e la conseguente risposta ormonale insulinemica
(zuccheri semplici, dolci ma anche cereali raffinati e/o particolarmente ricchi
in glutine, o altri amidi assunti senza un accompagnamento di fibre o altre
sostanze che ne controllino l’effetto di incremento della glicemia nel dopo
pasto: pane bianco, pasta bianca, patate, dolci, frutta senza buccia, etc), o
per il loro contenuto in sali o altre sostanze (saporificatori, conservanti
etc), con conseguente effetto direttamente “infiammatorio” sugli spazi
neuronali che gestiscono il centro della fame, della sazietà e della dipendenza
(per riduzione della sensibilità a ormoni ”sazianti” come la leptina, o per eccesso
di disponibilità di altri come la serotonina, vero e proprio ormone
“controllore” di altri con potere eccitante o sedativo il sistema nervoso
centrale e autonomo, come adrenalina, noradrenalina e nervo vago).
D’altra parte una
modalità del vivere proiettata continuamente in avanti, nella quotidianità, senza
la minima attenzione verso il momento del pasto o del riposo, possibile
conseguenza di un atteggiamento di iper responsabilizzazione nei confronti dei
problemi della vita, può portare non solo a uno stato di stress attivato, ma anche
a disturbi del sistema digerente capaci
di indurre un meccanismo perpetuo. Da una parte infatti il mangiare senza
la giusta considerazione di questo momento (che non necessariamente deve essere
lungo, ma dedicato all’inforcare il cibo,
ad apprezzarlo, a gustarlo, senza pensare al problema che abbiamo lasciato o a
quello che ci sta aspettando) non permette al nostro sistema digerente di
essere pronto al suo lavoro (che è quello di
DIGERIRE, fornendo da quel pasto la giusta energia invece che accumulare
riserva nel tessuto grasso, e
SODDISFAZIONE, in grado di contrastare gli ormoni dello stress come il
cortisolo), e anzi ne favorisce un infiammazione che può essere essa stessa
causa di alterazioni dell’umore (per effetto dello stress sul microbiota
intestinale, e viceversa). Dall’altra, questa “frenesia” della quotidianità
porta ad una eccitazione del sistema dello stress cui seguirà inizialmente un
aumento nella produzione di cortisolo a scopo reattivo (di aiuto), e secondariamente
(in tempi dipendenti dalla costituzione individuale, e quindi dalle risorse del soggetto) al suo
esaurimento. La prima fase potrà associarsi non solo ad alterazioni della forma fisica
conseguenti all’iperfagia da ipercortisolemia, o a un rallentamento del
metabolismo degli zuccheri (che si legge
con un incremento della emoglobina glicata del sangue non su base ALIMENTARE,
ma dello stress, da effetto CORTISOLICO), ma anche del sistema cardiovascolare
(ipertensione, tachicardia, angina pectoris) o di quello nervoso (insonnia,
attacchi di panico, depressione, calo della concentrazione), ancora più
pericoloso in determinati periodi della vita (tipicamente il soggetto maschile
dai 40 ai 55 anni), che associati ad altri fattori di rischio potranno essere
pericolosi per la vita. A questa fase, l’ipocortisolemia successiva potrà
associarsi ad astenia, calo della libido (per sinergia con altri ormoni
sessuali maschili o femminili), o anergia immunitaria (spiccate patologie su base allergica, o virale etc).
Un efficace strumento di prevenzione a tutto ciò è
l’ORDINE:
-nella assunzione dei pasti (per scelta rispettosa
del luogo e dell’orario)
-nella definizione del tempo della giornata dedicato
ai “compiti“ (il lavoro, la risoluzione di un problema famigliare), e di quello
dedicato al “premio”: un hobby che sia poco razionale ma molto istintivo
(giardinaggio, lavori manuali o di fotografia o di disegno etc), o un attività
fisica foriera allo stesso tempo di defaticamento, ma anche di soddisfazione
(diretta conseguenza di endorfine e altri ormoni prodotti).